GPA, la nuova benzina per le “Fabbriche di bambini”

Tra il 2008 e il 2010 la polizia nigeriana ha scoperto più di 20 edifici in cui le donne venivano sfruttate per alimentare il business della vendita di bambini.

Emmanuele Di Leo, presidente della Steadfast Onlus, co-fondatore del Comitato Difendiamo i Nostri Figli e uno dei promotori del Family Day, affronta con un focus più specifico il traffico delle madri surrogate nel territorio nigeriano. Infatti Di Leo, come ha già raccontato in un’intervista pubblicata su ZENIT, spiega come questa orrenda pratica, quella dell’utero in affitto, trova alimento nel sottoporre a schiavitù donne provenienti da Paesi meno sviluppati. Facendo leva sulla povertà, ragazze vengono raggirate e sfruttate come “operaie” per alimentare il business di veri e propri allevamenti di esseri umani.

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Giovani donne di cui alcune appena adolescenti, sono le vittime di questo losco mercato in Nigeria. Tra il 2008 e il 2014 sono state scoperte dalla polizia nigeriana più di 20 Fabbriche di bambini (Mediterranean Journal of Social Sciences 6(1):75-81 • Gennaio 2015). La maggior parte delle donne presenti nelle strutture erano lì sotto coercizione per alimentare il traffico della vendita di figli.

La triste realtà delle Fabbriche di bambini, è una attività nata prima dell’evoluzione tecnico-scientifica dell’utero in affitto. Con mezzi “rudimentali”, sfruttatori costringevano donne a riprodursi per poi vendere i loro figli a ricchi occidentali o per immetterli nel circuito del traffico delle adozioni. Questa pratica è andata sempre più evolvendosi, generando così “un’opportunità” di lavoro per donne in condizione di estrema povertà. Così donne, bambine, giovani vergini venivano, e vengono tutt’ora, rapite dai loro villaggi, violentate e tenute in ostaggio fino alla consegna del bambino ai ricchi compratori. Schiave obbligate ad alimentare il ricco mercato della riproduzione.

Con l’evolversi della tecnologia bio-medica e con la nascita del metodo della Gpa (gestazione per altri o maternità surrogata), in Nigeria, il volume d’affari è notevolmente aumentato e sempre più strutture come cliniche sanitarie, orfanotrofi, mutano in Fabbriche di bambini. Tali aberranti attività, per poter essere, necessitano soprattutto di materiale umano, o vero di vere e proprie incubatrici viventi. Quindi il reclutamento delle donne destinate al business degli allevamenti degli esseri umani è uno dei processi fondamentali.

Esso avviene tramite figure maschili che in varie forme intervengono nei villaggi alle periferie delle città. Nel 2014 la giurista Esohe Aghatise, presidente dell’associazione Iroko Onlus e consulente delle Nazioni Unite sul fenomeno delle tratte, in un’intervista al quotidiano online Lettera 43 affermava in merito ai rapimenti di Boko Haram: “Molti fanno finta di non vedere. Queste ragazze, possono finire sulle strade europee o trattate come animali nei campi del Sud Sudan”. In merito al mercato delle donne affermava: “È un mercato ricco e ci sono compratori in tutti i Paesi del mondo”. Quindi se volessimo ipotizzare è anche probabile che molte di queste vittime finiscano tra le fauci del redditizio mercato riproduttivo.

Il boom della vendita di bambini in Nigeria si collega a una delle principali motivazioni dello sviluppo di tale pratica. Il business della vendita di bambini ha tante richieste in Nigeria per via del problema culturale dell’infertilità, vissuta dal popolo nigeriano come grave problema sociale. Donne rapite vengono obbligate a essere madri surrogate sia gestazionali che genitrici. In parallelo come co-protagoniste del fatto, troviamo le giovani mogli infertili di ricchi uomini della nazione, che evitando contatti con medici e operatori sanitari, con l’aiuto di particolari farmaci, fingono la gravidanza. Un teatrino studiato ad hoc per sopperire al “grave scandalo” socio-culturale dell’infertilità.

Da Umaka a Aba, da Lagos a Ihiala, bambine che vanno dai 14 ai 17 anni sono vittime di tratta per la riproduzione. Dalle fonti Unicef tra il 2004 e il 2006 più di 757 donne sono state estirpate dal mercato nero della schiavitù. Secondo Global News nel 2011 le autorità nigeriane sono riuscite a salvare 32 ragazzine destinate alle “Babyfabrik” presso la città di Aba, in Delta State. Ad ottobre dello stesso anno presso lo stato di Anambra altre 15 donne sono state salvate. Nel caso di gravidanze indesiderate, per evitare l’esclusione dalla società, causa mancanza di marito, le Fabbriche di bambini diventano ottime soluzioni per famiglie di giovani madri disperate. Con poche migliaia di euro le Babyfabrik si assicurano un fruttuoso business. Secondo la Bbc, i bambini venduti come oggetti, possono rappresentare non solo l’esaudirsi di un desiderio genitoriale, ma possono anche essere uccisi e utilizzati per rituali o altri traffici illeciti.

Secondo Die Welt già dal 2008 in Nigeria, molte strutture adibite ad allevamenti di esseri umani sono state scoperte. Le forze di polizia nigeriane in quell’anno smascherarono una fitta rete di cliniche che per poche migliaia di euro facevano dei bambini una merce di scambio. In quell’occasione le donne liberate dalla tratta hanno affermato che molte di loro erano in quelle condizioni da più di tre anni e che a ciclo continuo erano costrette a continue gravidanze. Con loro anche donne arrivate per abortire che a loro volta venivano rapite e costrette alla riproduzione. I bambini nati da quelle fabbriche degli orrori, venivano venduti dai 2 ai 3mila euro l’uno.

Potremmo citare tanti altri esempi, che continuano ad emergere, ma il grande quesito è se in Nigeria, Paese in via di sviluppo, succede tutto questo, cosa succede nei Paesi industrializzati, dove la vita è rilegata non più all’importanza di essere, ma a quella del produrre? È possibile che l’essere umano possa diventare un mero prodotto di una catena di distribuzione per appagare i desideri di alcuni? È possibile che in Italia, si vuole portare in Parlamento un disegno di legge che favorirà la promozione di tali procedure di riproduzione? A voi la risposta, io il 30 gennaio sarò al Circo Massimo di Roma per manifestare il mio dissenso.