Dalle violenze in Nigeria all’asilo politico in Italia: la storia di Jeff

Jeff. Si presenta con questo nome, americaneggiante. Viene dalla Nigeria, una terra martoriata da instabilità politica e lotte interetniche, sobillate spesso da Paesi stranieri e multinazionali interessate ai ricchissimi giacimenti di petrolio. Lo incontriamo in un bar, accetta di parlare senza troppa convinzione. Dopo quanto successo il 3 ottobre a Lampedusa, gli diciamo che abbiamo bisogno di capire, attraverso la sua storia. Si fa convincere. Ha la faccia da ragazzino Jeff, dimostra molti meno dei suoi 42 anni. Jeff in Italia è arrivato due anni fa, dopo aver attraversato il Canale di Sicilia insieme alla moglie e al figlioletto. La sua storia è quella di altre migliaia di persone in fuga da luoghi provati dalla guerra o dall’instabilità politica dell’Africa o del Vicino Oriente, cui le cronache ci hanno abituato. Tecnicamente un richiedente asilo, nella pratica un uomo che lotta per riprendersi una vita.
Lampedusa, terra promessa – Mantiene un atteggiamento diffidente. Ma comincia a raccontare. A Lampedusa è arrivato nel 2001, quel ricordo ancora gli spezza la voce. “C’era la guerra a Tripoli. Cadevano le bombe. Siamo partiti un giorno che il mare era mosso. Dietro il nostro barcone ce n’era un altro. Dopo un paio d’ore ho visto le onde alte, è affondato: a bordo c’erano centinaia di persone, tutte morte, non riesco a dimenticare”. Si agita. “Scusami – mi dice – ricordare queste cose mi fa male”. Ad un tratto sembra a disagio ma continua il racconto, con un italiano stentato intervallato da parole inglesi, tipico dei nigeriani. “A me e alla mia famiglia è andata bene, il viaggio è durato una settimana”. Sette giorni di sete e fame, con lo spettro della morte come compagno di viaggio. “Avevamo paura, c’erano le donne e i bambini, molti nigeriani. Ma ricordo anche senegalesi, eritrei, ciadiani, libici”. Fino a quel giorno aveva vissuto a Tripoli, dove lavorava da 14 anni. Faceva l’ingegnere edile, dice.
“Torturato in Nigeria” – Il resto del racconto è da film, impossibile da verificare. “Decisi di salire su un barcone per l’Italia dopo che mio padre venne ucciso in Nigeria”, prosegue. Fu una telefonata della madre a farlo tornare in patria, racconta ancora, per il funerale. Lì scoprì che a compiere l’assassinio furono “uomini della parte politica avversa a quella nella quale militava mio padre”, convinti che, assieme alla moglie, avesse visto in faccia gli assassini di un noto politico nigeriano. Il giorno dopo il funerale, un gruppo di uomini lo rapì da casa e lo portò in un luogo nascosto. “Venni legato e torturato per diversi giorni – dice mentre mostra i segni ormai indelebili dei legacci intorno ai polsi e alle caviglie – volevano sapere dove si trovasse mia madre”. Forse anche lei aveva visto ciò che nessuno avrebbe dovuto. “Dopo una settimana una donna, forse per compassione, tagliò le corde che mi tenevano immobilizzato”. Il racconto si fa un po’ confuso sui tempi, l’italiano approssimativo non aiuta. Quel che sembra chiaro è che Jeff scappa, attraversa il confine con mezzi di fortuna fino al Ciad e da lì alla Costa d’Avorio dove conosce sua moglie. Torna in Libia, riprende a lavorare, consapevole di non poter più mettere piede in Nigeria. A stravolgere ancora la sua vita, arrivano le bombe. “Tripoli era nel caos. Una notte un gruppo di uomini armati cercò di fare irruzione nel nostro appartamento. Fuggimmo da una finestra”, racconta aiutandosi con i gesti. Da lì la decisione di affidarsi al mare e rischiare la vita per salvare sé e la sua famiglia.
Lampedusa e la richiesta di asilo – L’arrivo a Lampedusa è un nuovo inizio, la via di fuga da bombe e torture. Una volta in Italia fa richiesta di asilo per sé, per la moglie e per il figlio. “Nel barcone sul quale ho viaggiato io c’erano tanti in fuga dalla guerra”, racconta. La procedura del caso viene attivata e Jeff viene mandato in un comune nei pressi di Cagliari: i richiedenti asilo vengono “smistati” e mandati nei diversi centri “Cara” d’Italia. Lo status di rifugiato alla fine Jeff non lo ottiene: forse la sua storia non è stata creduta fino in fondo. Però ottiene un permesso umanitario per un anno. Che, come dice il vice prefetto di Cagliari, Ettore Businco, “non si nega quasi a nessun richiedente asilo” (Leggi l’intervista).
Le difficoltà – Jeff trova un lavoro, per un periodo si sposta fuori dalla Sardegna. Perde il lavoro quando torna in Sardegna per problemi familiari, mentre è arrivato anche il secondo figlio. I servizi sociali non rispondono, il comune non riesce ad aiutarlo. La casa “fatiscente e troppo umida” nella quale vive con la moglie e i figli gli costa 650 euro di affitto, contratto alla mano. La bambina più piccola è malata e, a causa del recente cambio di residenza, non può portarla dal pediatra. “Non ho i soldi per comprare le medicine a mia figlia”, ci racconta con l’aria preoccupata. L’odore della disperazione arriva insieme all’ingiunzione di sfratto, la paura torna a impregnare l’aria: se non trova una soluzione rischia l’espulsione dall’Italia.
Una storia finita bene – E’ Samba, quarantenne naturalizzato italiano, originario del Senegal, mediatore culturale e “fratello maggiore” di molti immigrati che arrivano nel Sud della Sardegna, a dargli un aiuto prezioso. Grazie al suo aiuto, Jeff ottiene una licenza da venditore ambulante e di conseguenza può chiedere il permesso di soggiorno. Lo aiuta a trovare una nuova casa (ad un prezzo più accessibile) e gli procura una macchinetta per l’aerosol con relative medicine. Quella di Jeff è una storia tutto sommato “finita bene”, dice Samba perché lui, aggiunge, “è davvero un bravo ragazzo che vuole bene ai suoi figli”, che nel frattempo sono diventati due. A molti altri, abbandonati a sé stessi in tempi in cui le amministrazioni locali hanno le casse vuote (perché dopo la concessione del diritto di asilo, la competenza passa a comuni e province ndr), non è andata così. La protezione garantita dalle convenzioni internazionali è rimasta lettera morta e l’emancipazione resta un’utopia.
di: Antonella Loi